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Wednesday, April 25, 2012

Il riduzionismo psicologico e la mano invisibile di Adam

Si diceva che l' individa per la fisica, portò l'economista ottocentesco a mutuarne i metodi e, aihnoi, le basi epistemologiche. Mi piace citare questa frase di Pierre-Simon Laplace che scrive

“Possiamo considerare lo stato attuale dell'universo come l'effetto del suo passato e la causa del suo futuro. Un intelletto che ad un determinato istante dovesse conoscere tutte le forze che mettono in moto la natura, e tutte le posizioni di tutti gli oggetti di cui la natura è composta, se questo intelletto fosse inoltre sufficientemente ampio da sottoporre questi dati ad analisi, esso racchiuderebbe in un'unica formula i movimenti dei corpi più grandi dell'universo e quelli degli atomi più piccoli; per un tale intelletto nulla sarebbe incerto ed il futuro proprio come il passato sarebbe evidente davanti ai suoi occhi ” (Essai philosophique sur les probabilités, Laplace).

Questo modo deterministico di concepire il mondo, assorbito da una certa economia, ha causato una deriva di riduzionismo psicologico, sociologico, storico ed istituzionale. Infatti si è voluto modellizzare gli agenti economici come atomi ottocenteschi, dare loro semplici regole di interazione e studiare il sistema economico come risultato di queste azioni.

Come si muove l'atomo uomo nei modelli di riferimento ortodossi? l' atomo-uomo è perfettamente razionale e si muove massimizzando il proprio interesse e interagendo con gli altri uomini-atomo solo attraverso il meccanismo dei prezzi che si generano sul mercato. In altre parole nello studio dell' economia si decide di considerare come rilevante solo quella parte di uomo che agisce in modo razionale e massimizza la propria utilità. Penso che sia John Stuar Mill a utilizzare per primo l' espressione Homo Oeconomicus.

Nella costruzione di un modello interpretativo della realtà ogni riduzione è lecita se motivata e coerente con gli scopi che si propone. Per esempio, nel caso essa voglia spiegare un determinato fenomeno in modo positivo. Tuttavia nel momento in cui l'economia, in quanto politica, ha aspirazioni normative il discorso cambia perchè i modelli utilizzati portano anche a conseguenze politiche diverse.

Ammettiamo pure che la scienza economica sia molto variegata, che la stessa ortodossia nei secoli che la separano da John Stuart Mill si sia molto più raffinata rispetto alla descrizione fantoccio che ne ho appena fatto. Purtroppo però l' economia che viene insegnata nelle università alla futura classe dirigente o la vulgata che si legge sui giornali è rimasta molto indietro.

Il messaggio che più volte sento riportare viene di solito ammantato di nobiltà facendo riferimento ad Adam Smith, che nel suo libro "The Wealth of Nations" diceva:

"Non è dalla generosità del macellaio, del birrario o del fornaio che noi possiamo sperare di ottnere il nostro pranzo, ma dalla valutazione che essi fanno dei propri interessi"
Insomma ognuno segue il proprio interesse personale, ma come risultato il sistema garantisce a tutti un lauto pasto che possiamo permetterci con il lavoro eseguito a nostra volta. Qualcuno parla anche di "mano invisibile" ad indicare la natura quasi divina di questo processo per cui il nostro egoismo porta al bene comune.

Ora tutto questo non è vero: non è vero che succede questo e non è vero che così la pensava Adam Smith. Adam Smith usa invero l' espressione mano invisbile, ma per la prima volta in un altro libro "La teoria dei sentimenti morali". In questo libro Adam Smith descrive l' empatia che ci lega agli umani per il solo fatto che siano umani. Questa parte dell'uomo non si può escludere da un discorso di economia politica perchè ne è parte integrante.

Essa è alla base di ormai centinaia di attività economiche che non massimizzano SOLO l' utilità degli individui ma il bene sociale. Pensiamo alla banca etica, all' attenzione per l' ambiente, all' associazionismo di ogni genere e colore, al movimento open source. Si può mostrare come il modello standard non sia in grado di inglobare queste realtà e come non necessariamente (anzi) esse portino ad una riduzione del benessere economico.


Forse agli studenti del primo anno di economia e scienze politiche dovremmo iniziare ad insegnare anche questo...




ps: intanto consiglio un libro qui in edizione ebook.

Tuesday, April 17, 2012

Gli economisti e la crisi

Nel bene e nel male non si è mai parlato tanto di economisti e fatto parlare gli economisti come negli ultimi anni. C'è chi "gli econoministi hanno causato la crisi", c'è chi "gli economisti non hanno previsto la crisi", c'è chi "gli economisti ci salveranno dalla crisi". Mi preoccupano poi i ricorsi ad una terminologia medica su "bilanci da risanare", "crisi da curare", "diagnosi e cure" o a fantascientfici risvolti di simulazioni predittive del futuro.

Urge ricordare a tutti e soprattutto agli economisti che l' economia è una scienza sociale. Anzi torniamo a chiamarla con il suo nome ovvero Economia Politica. L' economia nasce come l' arte di far di conto per mandare avanti una famiglia o un' impresa. Quando questa famiglia divenne nei lunghi percorsi storici la famiglia reale che possedeva uno stato, l' economia divenne politica.
Così l' economia politica si occupa di come far tirare avanti la nostra grande famiglia-stato decidendo cosa comperare, come investire sui figli, come mantenere i nonni, se fare un investimento, se prendere a prestito o risparmiare per i periodi più difficili.

Ovviamente il livello di complessità è molto maggiore perchè ci sono svariati individui con interessi e visioni del mondo che devono coesistere, c'è una competezione interna ed una esterna degli altri stati, manca spesso un senso di reciprocità come in un nucleo familiare, esistono imprevisti e improvvisi shock esogeni a cui fare fronte.

Si dice che Max Planck prima di occuparsi di Fisica, si fosse appassionato di economia politica. Una passione però, a suo dire, durata poca a causa della sua eccessiva complessità.

Storicamente, la complessità dell' economia è stata riconosciuta ed i primi economisti da Adam Smith a Carlo Marx, furono filosofi a tutti tondo. Nei loro scritti, il rigore dei numeri è sempre affiancato da considerazioni di natura storica, giuridica, istituzionale, psicologica.

A fine Ottocento, l' invidia positivista degli economisti per le altre scienze diede l' illusione di poter affrontare in altro modo la complessità dei sistemi economici. Jevons per primo suggerì di abbandonare la dicitura Political Economy per descrivere questa scienza e passare ad più scientifico Economics per farla assomigliare di più a mathemathics o phisics. E la scienza economica, dalla matematica e dalla fisica meccanica, ne mutuò anche gli strumenti. Ne nacque una scienza dove la modellistica analitica sostituì la filosofia nell' interpretazione dei dati.

Il cambiamento non fu certo o solo negativo. La forza del linguaggio analitico è dirompente. Esso è un potente mezzo di ragionamento con cui si chiarificano i concetti, si studiano in modo logico le relazioni, si evitano fallacie di ogni genere. L' errore fu (è) quello di dimenticarsi in buona o cattiva fede che ogni modello è basato su ipotesi di lavoro diverse che necessariamente portano a risultati diversi.

Attualmente si scotrano due scuole quella keynesiana e quella ortodossa (mainstream). I keynesiani sostengno che non si debba ridurre la spesa pubblica, perchè spesa pubblica vuol dire domanda per le imprese che possono così prosperare e creare redditi per imprenditori ed operai che a loro volta spenderanno di più. A questo dovrebbe accompagnarsi un allargamento della base monetaria per generare inflazione e creare occupazione (per approndire si googoli "curva di phillips").

Gli ortodossi o mainstream ritengono invece che bisogna tagliare le spese ed abbassare le tasse, in modo da liberare risorse per gli investimenti privati. L' inflazione deve rimanere bassa perchè garantisce stabilità al sistema e nel lungo periodo non crea sicuramente occupazione.

Alcuni dei primi sostengono anche un' uscita dall' euro per riequilibrare il valore dei prodotti di stati diversi. Così facendo, dicono gli altri, dovrebbero però anche introdurre restrizioni al libero mercato. E le econonomie, dicono, prosperano nel libero scambio.

Insomma i medici non sono d'accordo sulla cura.

Il fatto è che hanno tutti ragione. Sulla base di un modello keynesiano la spesa pubblica genera più spesa privata. Sulla base del modello standard la moneta nel lungo periodo non ha effetto sull'occupazione.

Il fatto è che hanno torto tutti, perchè conosiderano la complessità modellabile da equazioni matematiche che generano previsioni. L' economia non è la psicostoriografia di Haari Seldon:
"La psicostoriografia era la quintessenza della sociologia; era la scienza del comportamento umano ridotto ad equazioni matematiche" (I. Asimov)

In verità l' economia deve ritornare ad essere una scienza del ragionamento pragmatico, che si basa tuttavia su una sopraffina analisi statistica di grandi moli di dati. I modelli servono eccome! ma non da brandire come una bibbia, ma per essere confrontati tra di loro.

A me piace leggere Einaudi e Schumpeter, ma non vanno più di moda!

a bien tot

Friday, April 13, 2012

Loretta Napoleoni ed i perfidi tedeschi

Ieri sera al Circolo dei Lettori ho partecipato ad una bella serata torinese.

Loretta Napoleoni ha raccontato ad un etereogeneo gruppo quali sono secondo lei i motivi della crisi ed ha offerto una visione per uscirne.

La ragione principale della crisi del capitalismo occidentale è, secondo la Napoleoni, da ricercarsi nella fine dei vantaggi europei nello sfruttamento delle materie prime in chiave (neo)colonialista, un riequilibrarsi quindi del potere economico a livello mondiale. Il suo è stato uno sviluppo più o meno inconsapevole della teoria centro-periferia. Si chiama dependecy theory, risale agli anni 70 e descrive in chiave strutturalista i rapporti di forza di un centro ricco, che vive sfruttando le risorse di una periferia povera. è sicuramente una parte della storia, se sia la più importante non lo so. e non credo, ma questo sarà magari argomento di un altro post.

Dove non sono tuttavia d'accordo è l' utilizzo dello stesso modello per descrivere i rapporti di forza all' interno dell' Europa dove i paese del nord (ma lei parlava solo di Germania) sono il centro ricco che sfrutta le fasce periferiche. Il discorso non è nuovo ed in voga nella sinistra radical chic (della quale io faccio parte a corrente alternata). C'è anche chi su questa teoria ci ha creato un Blog.

Il meccanismo sarebbe il seguente. L' ingresso nell' Euro ha garantito alla Germania l' utilizzo di una moneta più debole rispetto al marco rendondo l' economia teutonica più competitiva nel mondo e soprattutto in Europa. Contemporaneamente l' euro ha permesso ai peasi periferici di indebitarsi a bassi tassi di interesse per comperare i più competitivi prodotti tedeschi. Contemporanemente il non più competitivo settore manufatturiero della periferia chiudeva baracca e burattini (In Grecia esiste più). A questo si aggiunge, dicono alcuni, ma non la Napoleoni, che i perfidi capitalisti tedeschi avrebbero tagliato i salari per aumentare la produttività e dato incentivi all'economia aggirando le restrizioni dell' antitrust europeo. Secondo le stesse persone, l' uscita dall' euro ed il ricorso a svalutazioni competitive salverebbe il (poco)salvabile.

L' analisi è in parte corretta. Infatti è vero che: la produttività media del lavoro in Germania cresce da 30 anni più di quella italiana, negli anni 2000 il settore manufatturiero tedesco ha avuto crescita di salari contenuti, noi ci siamo indebitati, la germania ha migliorato la bilancia commerciale, noi l' abbiamo peggiorata.


Tuttavia abbandonando il mondo meccanicista-strutturalista della macro-economia possiamo vedere più cose. Soprattutto non possiamo vedere nessuna imposizione (neo)colonialista dei rapposrti di forza. Cosa è successo veramente? ecco una spiegazione alternativa basata sulle scelte di investimento.

La produttività aumenta di più se il costo del lavoro crese di meno o se migliora la tecnologia, le infrastrutture, le condizioni istituzionali in cui operano le imprese.

Dalla svalutazione del 1992 al 2002 in Italia la crescita della produttività è rimasta al palo, maggiore solo di quello della slovacchia nei paesi OECD. e non certo per un aumento dei salari. Ilproblema è che non si è investito in R&S: soprattutto di fianco allo storico deficit di R&S pubblico, le imprese private non hanno reinvestito i profitti in investimenti innovativi. Infrastrutture? condizioni istituzionali? zero assoluto. mentre i perfidi tedeschi in quegli anni investivano per migliorarsi noi che facevamo?

L' ingresso nell' Euro non ha migliorato la situazione. Ormai tranquilli di essere al coperto da tempeste valutarie abbiamo continuato ad indebitarci cullati in un' illusione televisiva di ottimismo. Nel frattempo in Germania, il governo schroeder ha implementato l' AGENDA 2010, ovvero un piano strategico di sviluppo di orizzonte pluriennale che ha garantito bassa crescita dei salari in cambio di tagli non eccessivi del welfare, reinvestimenti in capitale umano e ricerca sviluppo, incentivi alle imprese innovative soprattutto in alcuni settori strategici come le energie rinnovabili. Ora aldila' del giudizio politico che si vuole dare, agenda 2010 è stato un momento di riflessione, visione ed azione. Ed ha portato i suoi frutti. Non si possono accusare i tedeschi di essere perfidi perchè hanno fatto quello che avremmo dovuto fare noi. ed ora gridiamo alla mancata collobarazione tra nazioni europee.

All' interrno di un sistema competitivo istituzionale e leale, non si può dare la colpa agli altri, quando si è fatto poco noi. All' Italia manca una visione di politica economica ed industriale a causa della pluridecennale empasse politica. In tempi difficili che richiedono riflessione, visione ed azione, questo è il problema maggiore.